Camera con vista
Janus
CARLO COLA – Camera con Vista
Janus, novembre 2005
Carlo Cola – Camera con vista
Con il titolo Camera con Vista non alludo al bellissimo romanzo di Edward Morgan Forster A Room with a Wiew (da cui fu tratto anche un film molto suggestivo di James Ivory), ma a quello che c’è d’inespresso in quel romanzo ed a quello che c’è di non detto, di sottinteso, di nascosto, perfino d’invisibile nella pittura di Carlo Cola, come se ogni suo quadro fosse collocato in un luogo isolato, separato da ogni altro luogo, sulla cima di una collina, per esempio. In realtà il pittore dipinge in una camera isolata, collocata sulla sommità della sua abitazione, alla quale si accede soltanto passando per una ripida scala di legno, una scala un po’ in bilico tra l’esterno e l’interno della realtà, da una parte la città, in basso, che fluisce con le sue strade antiche, dall’altra parte, in alto, in una specie di torre, forse un eremo, che si distacca un poco alla volta dal paesaggio che lo circonda come se si trovasse invece in mezzo ad un deserto o in mezzo ad una foresta. Siamo già dentro una stanza e da una stanza, da alcuni anni soprattutto, escono fuori i suoi quadri. È un pittore che coltiva il gusto della solitudine, ma si tratta d’una solitudine molto interiore, d’una solitudine segreta, d’una solitudine assaporata nell’interno d’uno spazio immaginario, poiché, poi, nella realtà quotidiana il pittore conduce un’intensa vita sociale e lavorativa, una vita di molte e profonde relazioni umane, ma alla fine, quando dipinge, sembra che chiuda alle sue spalle la porta della sua torre e che si immerga totalmente solo nella sua pittura. Questo è il punto centrale della sua ricerca estetica: dipingere come se la vita fosse un attraversamento della pittura, l’attraversamento d’una foresta o d’un deserto, raccogliendo pietre e ciottoli o ramoscelli d’alberi od oggetti intravisti nella nebbia, oggetti stravaganti o semplici mobili da mettere dentro i suoi quadri. Lì, infatti, li ritroviamo come se fossero stati raccolti da un collezionista di reperti archeologici. Carlo Cola è, infatti, un raccoglitore di memorie. Ha bisogno di custodirle, di metterle dentro una grande bacheca, che è poi la stanza segreta della sua pittura e della sua immaginazione. È un pittore che viaggia molto nella sua fantasia, che ha bisogno d’avere intorno a sé una solida parete dove collocare i suoi oggetti, i suoi quadri, le sue memorie. Intorno ha sparso un’infinità di boccali ripieni di liquidi strani, come se fosse un alchimista, su un tavolo sono disseminati centinaia di tubetti di colore, nuovi, già usati, spremuti, accarezzati, contorti, resi morbidi, quasi fluidi dall’uso del dipingere, come se fossero pietre preziose luccicanti sotto la luce delle lampade. Intorno altre porte di legno antico sono socchiuse, la torre prosegue in altri meandri, il colore è nei suoi quadri ed è nella camera dove dipinge, attraversata da qualche obliquo raggio solare, come se i pigmenti fossero usciti dai loro tubetti e si fossero sparsi dappertutto come l’acqua d’un torrente, si fossero adagiati sulle pareti della stanza, sul pavimento, sulle mani del pittore. Il luogo ha una sua bizzarria, l’accumulazione degli oggetti riconduce la stanza alle Wunderkammernd’una antica collezione che si affida molto al caso, all’estro del momento, all’incontro del disordine con l’ordine. Anche Carlo Cola è un po’ dentro i suoi quadri, dove non appare nessun essere umano, entra ed esce dalla superficie della tela. Naturalmente non è presente fisicamente, ma è come se a sua volta si fosse un po’ dissolto in mezzo ai suoi colori. Non ci sono specchi nella sua camera e sono anche rari nei suoi dipinti, sono soltanto fulgide superfici ingannevoli, sono opachi, cercano di sfuggire nelle profondità delle pareti. Tutto è nell’interno delle sue raffigurazioni. Come tutti quegli oggetti siano entrati nella camera è quasi un mistero. Il pittore dice che ha tratto quelle camere da luoghi realmente esistenti, sono la Camera di Picasso o di Chagall, la Camera di Balthus e della Yourcenar, di persone note e di persone sconosciute, ma possiamo credere ai pittori anche quando dicono la verità? Naturalmente i pittori veri non mentono mai, dicono sempre il vero, ma è un vero che appartiene soltanto alla genesi ed alla storia di chi dipinge, non alla storia di chi contempla quei quadri e che ignora, che deve ignorare, da dove quella camera è stata tratta. Sono navi che hanno attraversato il deserto. La salsedine le ha un po’ ricoperte, il vento ha teso e stracciate le loro vele, il mare è entrato dentro il boccaporto, gli uccelli marini le hanno attraversate da parte a parte, conservano nella loro struttura il ricordo delle tempeste che hanno affrontato, le ha trasformate in castelli, in torri, in pietre preziose. È come voler indagare come era l’universo prima della creazione o durante la creazione. Troppo tempo è passato. Noi vediamo soltanto il risultato finale e dobbiamo accontentarci, come ogni mortale, di quello che è davanti ai nostri occhi. Anche la camera ha fatto un viaggio nel tempo e nella memoria. Sappiamo che viene da molto lontano, da altre esperienze, che ha già vissuto a lungo, ma a noi interessa la sua vita attuale, quello che è ora. Abbiamo fatto come Alice, abbiamo attraversato lo specchio, siamo andati oltre lo specchio, siamo penetrati in una camera che è al di là dello specchio, ed è qui che comincia l’avventura pittorica di Carlo Cola.
Intanto possiamo subito domandarci: che cosa è accaduto nell’interno dei suoi quadri, nell’interno di quella camera, di quel salotto, di quella stanza da letto, di quella biblioteca. Abbiamo l’impressione che tutto sia stato capovolto, anche se ogni oggetto è rigorosamente al suo posto ed i mobili poggiano solidamente sul pavimento o contro la parete. C’è sicuramente ordine, ma nello stesso tempo quegli oggetti hanno ora qualche cosa di sfuggente, di diafano, di impalpabile, hanno un altro volto. Stentiamo a riconoscerli, anche se sono evidentemente un tavolo o una sedia o un lampadario, ma essi hanno già un’altra vita, hanno già un’altra sostanza, un’altra sensibilità. Non sappiamo se in quella camera è successo un delitto o una storia d’amore o una opaca vicenda casalinga, ma percepiamo l’eco di parole lontane che ancora sussurrano tra le pieghe dei tappeti, che si sono depositate, come chicchi di polvere, sulle sedie o sugli armadi. Qualcuno è passato per quella camera, qualcuno è vissuto tra quelle pareti, ma in questo momento non c’è nessuno, c’è soltanto silenzio, sono già tutti usciti da qualche porta invisibile, da qualche porta chiusa in fondo alla camera, come gli attori alla fine d’una commedia. Il palcoscenico è rimasto vuoto, ma si aggirano ancora i fantasmi, nel suo interno come in certi racconti di Henry James, nei quali è difficile distinguere i morti dai vivi (L’altare dei morti, per esempio) ed i vivi dai fantasmi (Giro di vite,ed altri ancora). Anche questi quadri sono abitati da fantasmi, di cui le ombre ed il fruscio dei passi scivolano ancora lungo le pareti. Sono luoghi abbandonati, ma nello stesso tempo sono luoghi posseduti da qualche presenza sconosciuta, da riflessi rossastri che passano da una parete all’altra, dal ricordo degli antichi abitanti di quei luoghi che da tempo si sono allontanati in punta di piedi o che sono addirittura morti. Forse stanno ancora parlando dietro qualche porta, non ritorneranno mai indietro. Anche quella camera è diventata un luogo della sofferenza e del rimpianto.
Gli oggetti sono inquieti. Le biblioteche, i libri sparsi per terra, i fogli, tendono al disordine. Il pittore ha aperto per un istante il sipario per consentire a quegli oggetti di entrare, in un certo senso li ha imprigionati, possiamo guardarli come se appartenessero ad un tempo sconosciuto, il pittore potrebbe sempre rinchiudere quel sipario da un istante all’altro, potrebbe sempre arrivare il momento della chiusura come accade ai visitatori d’un museo che si accorgono d’essere in ritardo e debbono affrettarsi verso l’uscita prima che le luci vengano spente, poiché nelle stanze dipinte da Carlo Cola vi è sicuramente un’entrata ed un’uscita, ma sono lontanissime, sembra che per attraversare quei luoghi occorra sempre molto tempo, uno spazio infinito. Quegli oggetti, che sembrano così remoti, in realtà trattengono chi passa davanti a loro, afferrano il visitatore per un braccio o per un lembo dell’abito, come se volessero impedire allo sguardo di allontanarsi. Dove sono andati i proprietari di quegli oggetti? Un momento prima sicuramente c’erano, un istante dopo sono già scomparsi. Non è rimasto più nessuno, soltanto l’eco della loro presenza, soltanto il fruscio furtivo dei loro passi. Quello che noi vediamo appartiene al passato, contempliamo ora soltanto oggetti un po’ avidi, oggetti possessivi, che non hanno dimenticato il loro passato e le vicende che hanno attraversato. Cercano di catturare, dopo essere stati catturati, chi passa nei loro paraggi. Sono anche oggetti appassionati. Hanno ancora voglia d’essere abitati, d’essere posseduti, di continuare a vivere nella pelle e dentro il corpo di altri abitanti. Quegli oggetti non vogliono morire. Vogliono provare ancora l’ebbrezza della vita, vogliono essere amati. Sono oggetti anche erotici, a causa dei colori densi, forti, che si sono sovrapposti su ogni forma, ma soprattutto a causa della loro passionalità, della loro avidità. Del loro intenso desiderio di continuare a vivere.
I candelabri che scendono dall’alto sembrano dorate o infiammate stalattiti, ancora distillano le gocce d’una pioggia sotterranea che passa attraverso le pareti della casa come un sangue un po’ turbolento nelle vene degli uomini, hanno profumi ed aromi orientali, secrezioni umane, ma sono stati accolti da una regione che sembra un po’ confinante con l’Asia e con l’Africa, ricca com’è di colori, di immaginazione, di carattere, di sentimenti. Si sente che il mare non è troppo lontano. Quei candelabri sembrano corpi che si distaccano dal soffitto, come serpenti attorcigliati dalla pelle luminosa, dai riflessi dorati. Quella camera ha un sapore antico, sembra un poco uno scrigno. La poetica e la drammaticità degli interni ha una tradizione di secoli nella pittura (ed anche in letteratura), dal realismo al simbolismo, che sarebbe troppo lungo enumerare, ma quegli interni servivano per contenere una presenza umana ben visibile, il corpo fisico, reale, del suo abitante, mentre in questi quadri il corpo è assente, è stato allontanato, è stato escluso, sono rimasti soltanto gli oggetti, come se lo spazio si fosse rinchiuso su se stesso come una botola, fosse diventato impenetrabile, inaccessibile. Ma il gioco dell’illusione riesce a catturarmi e per un istante mi pare d’essere seduto in una di quelle poltrone in attesa di un visitatore sconosciuto o disteso su quel letto che apparteneva ad altri in attesa d’un sonno che non arriva.
La sua pittura, nella sua sontuosità, ha qualche cosa d’una scenografia per un dramma della passione, ma rappresenta anche le scene di un’intima confessione, di cui conserva il ricordo della felicità e dell’infelicità, è un po’ l’anticamera dell’Inferno come l’ha decritto Sartre nella sua commedia Huis Clos o forse, meglio ancora, come l’anticamera del Paradiso, come l’ha immaginato Dante e come l’ha immaginato Milton, un paradiso che deve essere ancora conquistato, un paradiso lontano, non un paradiso rarefatto e impalpabile, ma un paradiso reale come doveva essere quello abitato da Adamo e da Eva, collocato nel remotissimo Oriente, circondato da due fiumi, l’Eufrate ed il Tigri, ed appena abbondonato da quelle due infelici creature, punite per un peccato veniale. Forse dietro quelle tappezzerie striscia ancora l’antico serpente: non lo vediamo, ma indoviniamo la sua presenza dal rigonfiamento degli oggetti che la luce ha un po’ deformato. Vediamo e non vediamo quei mobili, non siamo mai sicuri che siano al loro posto, dove il primitivo abitante del luogo li aveva collocati in un remoto passato, certamente non hanno mai smesso di muoversi impercettibilmente, di strisciare un poco sul pavimento, di condurre una segreta vita errabonda. Tuttavia in quei luoghi non c’è nulla di arbitrario, nulla di artificiale, una nuova legge si è impadronita di quel luogo e se il pittore ha manomesso la scena od ha cambiato la disposizione dei mobili era un suo diritto, tutto sembra sottomesso ad un nuovo equilibrio che è quello imperscrutabile della pittura che decide dove quel mobile va collocato e soprattutto quale colore dovrà adagiarsi sulla sua superficie. È qui che interviene un’altra legge, quella dell’estetica e dell’armonia che discendono assolutamente dalla sensibilità del pittore, dalla sua impetuosità pittorica. Quella camera è già un’altra cosa e diventerà sempre di più un’altra camera, ha il diritto di darsi una nuova forma, il pittore ha fatto il suo ingresso in quel luogo segreto e l’ha rivisitato a modo suo, non per capriccio, non per follia, non per una profanazione, ma perché tutti quegli oggetti non sono semplicemente oggetti, sono fiammelle che brillano nella notte, sono anime vaganti, non vengono solo dalla realtà, ma vengono fuori da un’altra intuizione interiore che opera nella mente del pittore.